Riflettevo su una cosa. Non posso far a meno di contestualizzare lo schermo che ho davanti e il PC dal quale scrivo e portarlo “fuori“, nel momento in cui viviamo. Si parla di globalizzazione: oggi, ora, di globale c’è solo un nemico da sconfiggere. E di (inter)culturale il modo in cui lo si gestisce.
In questo momento, purtroppo, non vedo globalità, ma diffidenza. Pensavo che in Italia non si è pronti a lavorare da casa (se non in alcuni casi, cosa che si fa più o meno ovunque e il concetto di smart working sembra quasi una parolaccia che stiamo acquisendo perchè ora fa “figo” dirla)) e occorre sensibilizzare la gente a rispettare semplici regole per fare in modo che il momento di crisi sia breve. Non si è pronti nemmeno per la formazione online (sì, a parte ancora alcuni casi), visto che professori e docenti fanno dei tutorial per studenti (liceo e università intendo) per imparare a muoversi su una piattaforma che, per molti aspetti, è molto simile alle mille altre che si utilizzano per fini ben più ludici. Parlo proprio per quella fetta di giovani che su Internet ci naviga eccome, ma non per un corso, un video libro, ecc.
Vedo modi di reagire anche molto simili. Interi assalti ai supermercati per la fobia di non avere cibarie dentro casa, sebbene proprio questi esercizi rimarranno aperti. L’unica differenza che noto è le preferenza di questa o quella cultura: laddove noi non prediligiamo le penne lisce, in Australia si fa incetta di carta igienica. Strane fobie!
Inoltre, noto una certa insofferenza alla comunicazione. Quello che viene detto, è decodificato decisamente (e necessariamente) male. Si critica, si punta il dito, si fa polemica… si insterilisce un bisogno di cooperazione e di unità che altrove ha funzionato.
I ragazzi vestono in modo uniforme (probabilmente questo, oltre ad essere un loro modo di comunicare il far parte di gruppo, li rende sicuri) e, aggiungerei: faticano o si vergognano di emergere se indossano un vestito o ascoltano un genere musicale diverso da chi loro frequentano. Si potrebbe quasi parlare di “omologazione”, lasciatemi passare il termine. Che poi si espande ad un contesto più ampio, globale appunto. E… ogni Paese che vai, usanza che trovi, direbbe il detto. Ogni ragazzo, quindi, si sofferma su quello che nel SUO Paese si fa. E, oggi, ahimè, non intravedo più quella curiosità che c’era qualche anno fa nell’imparare a conoscere chi proviene da altrove, da “fuori”. E’ automaticamente etichettato come”diverso”.E qui introduco un tema che forse potrebbe andare fuori dai binari ma che, non solo mi preme essendone coinvolta anche professionalmente, ma che trovo strettamente legato al concetto di globalizzazione: i social network.
Forse sono uno degli strumenti che più di tutti hanno influito e prodotto un concetto di apertura verso il “diverso“, ovvero verso l’esterno. Ma sono stati mal utilizzati quando gli utenti ne hanno trasformato la prima essenza – avvicinamento – in un’arma a doppio taglio – allontanamento. Da ciò che non conosciamo, da ciò che ci è ignoto.
Onestamente parlando oggi (e anche alla luce di quel che stiamo vivendo), non mi sento più di parlare di globalizzazione, quanto di frammentazione. Forse è una visione un po’ pessimistica la mia, ma la globalizzazione intesa come un tempo – e nemmeno non troppo lontano – sta finendo per porre limiti e paletti. Se pensiamo al contesto attuale, la globalizzazione avrebbe dovuto aiutarci se fosse stata ben radicata. Invece, accade proprio il contrario: ognuno si chiude entro i propri confini, diffidando dell’altro e rifiutando persino di fornire aiuti. La globalizzazione è dietro uno schermo di un PC o il display dello smartphone. Tutto, basta che “l’altro” ne rimanga adeguatamente fuori.
Io credo, e non voglio sembrare troppo severa, che noi non siamo pronti al mondo globale. Siamo pronti ad un mondo “nostro”, dove poi “fuori” ci sono altri mondi. E qui mi ricollego al concetto introdotto poc’anzi in cui parlavo di frammentazione.
Probabilmente, quando tutto questo sarà finito, potremo tornare a parlare di globalità. Ma per il momento, la nostra incapacità, e anche quella di molti Paesi, ci è stata sbattuta in faccia.