Come ho vissuto l’evoluzione dell’Università dal block notes al PC | Parte 2

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Quella routine sarebbe ricominciata… dicevamo.

Sì, e ricominciò per un po’ di anni, a seguire. Andai fuori corso, ma solo perchè volevo fare le cose per bene. Non andai fuori corso di molto, di un anno, credo. Ma gli ultimi due furono per me la vera presa di coscienza che ce la potevo fare. E, soprattutto, cresciuta, maturata e più consapevole delle mie possibilità.

Feci gli ultimi tre esami – Storia Moderna (studiata da sola e materia per me ostica), Inglese IV (ricordate la professoressa che ci consigliò di non fare mai il passaggio di ordinamento? sui generis fin nel luogo dell’esame, il suo studiolo arredato con varie copertine di autori inglesi, un ambiente colorato, ma i miei ricordi non sono nitidi), e l’esame degli esami Filologia Germanica.

Feci quell’esame come ultimo tra una sfilza, annotati su uno statino in formato A4 ormai sgualcito, sfidando la comune diceria del “non lasciare mai per ultimo l’esame più tosto per la tua Facoltà”. Bene, quell’esame era proprio Filologia Germanica.

Era luglio, e faceva caldo. Ma ricordo come fosse ora i miei piedi ghiacciati e viola per l’agitazione. L’esame si articolò in tre riprese. Una parte di inglese antico con un professore che ci faceva ridere per la sua parlata simile a quella di Paperino e le sue originali quanto improponibili bretelle su altrettanto improponibili camicie. Passai la sua parte con voto segreto, scritto su un pizzino che poi sarebbe stato consegnato alla Luminare.

La seconda parte era quella dedicata alla cultura inglese e la docente era una bionda che lesse il pizzino e si regolò su come procedere. Non saprei dire se era un voto alto o basso. Ricordo solo che il modo in cui si articolò la mia discussione era molto simile a quello del mettermi alla prova fino allo sfinimento. Nel frattempo il mio intestino si bucava dall’ansia. Passai la sua parte con voto segreto, scritto su un pizzino che poi sarebbe stato consegnato alla Luminare.

L’ultima e decisiva parte era quella sostenuta con, appunto, la Luminare. Ricordo che la sua leggenda in Facoltà era quella di essere tanto anziana quanto la materia che insegnava. So che sbobinai ore e ore di registrazioni su un walkman che con i mesi si bruciò (la tecnologia mi seguiva e io fui tanto orgogliosa di approdare ai registratori con le microcassette!), scrissi quaderni e quaderni delle sue spiegazioni. Meticolosamente. Senza che mi sfuggisse una virgola. Era il solo modo di passare un esame ostico e tanto complesso. Lessi il Beowulf in un inglese antico che, come dicono, il mio cervello ancora ricorda. E’ molto strano come la materia grigia ricordi studi fatti vent’anni fa e annienti quelli fatti un quarto d’ora prima. Mi prosciugò. Un’ora d’esame. Fino a quel “30, lo accetta?“. Il mio piede ormai viola e deforme, picchiettando nervosamente contro la sua scrivania, e la presenza costante e non invadente delle mie amiche fuori dalla porta, mi fece dire di “sì!”. Uscii sudata, ma avevo partorito la mia più grande soddisfazione.

Ci misi un anno per elaborare la mia tesi. La chiesi un giorno di settembre. Era precisamente l’11 settembre 2001. Tornai a casa a ora di pranzo. Avevo ormai un cellulare per avvisare a casa che sarei arrivata ad una certa ora. Prodigi! Poi decisi di mettermi un po’ sul letto a riposare. Faceva caldo. Accesi la TV e, in diretta, assistetti alla storia.

Lego questa data alla mia tesi per svariati motivi. Nacquero insieme le due svolte nella storia, la mia personale e quella della società a seguire.

La mia tesi verteva su Karen Blixen e la sua vita e e i suoi scritti in Africa. La scrissi nel corso di un anno. Elaborando, cercando materiali, ordinandoli ovunque nel mondo. Non fu un lavoro ma un viaggio interiore. Il mal d’Africa penetrò in me pur non avendo mai messo piede in quel misterioso e antropologico continente. Amai la mia tesi. Amai la Blixen. Amai il film La mia Africa. Amai apprezzarne sfumature e colori. Suoni e profumi. Dolori e gioie. Dolori.

Discussi la mia prima tesi a luglio. E, facendo un rapido calcolo, mi sono sempre laureata a luglio e solo una volta a novembre. Ricordo distintamente il fatto che quello passò alla storia come uno degli anni più caldi della storia. Essendo la mia prima laurea, pagai una parrucchiera che venne la mattina a mettermi in sesto. Avevo un tailleur nero che adoravo. Delle scarpe che adoravo. Ma vedendomi oggi, andrei anche in tuta a spiegare cosa ho scritto ad una commissione.

La forma non è tutto. La tesi è una figlia. La gestazione richiede mesi. La si sente propria, sebbene nata da lavori altrui. La si legge fino allo sfinimento, ovvero fino a quando errori, sviste, concetti e frasi sono raccolti dallo sguardo e il cervello non li elabora più. Il modo in cui ci si presenta fa solo parte di un codice sociale dettato dall’occasione. Una sorta di rispetto per l’avvenimento. Che stona con le occhiaie accumulate in notti insonni. Ed è quella la vera verità.

Entrai in aula da sola. Chiesi espressamente ai miei genitori e amiche di non entrare. Sapevo di arrecare loro un dispiacere. Ma in quei 15 minuti si giocava la mia vita, mettendo sul tavolo da gioco anni di studio colorati come fiche troppo costose. Entrai in aula da sola.

Ero emozionata. Ero una foglia. Ma decisa e precisa nel pormi con una commissione di docenti che avevo conosciuti negli anni. Parlai della Blixen, parlai d’Africa, parlai di Masai e di Kikuyu. Amai la discussione della mia tesi solo dopo averla realmente discussa.

Alla proclamazione, invece, entrarono tutti. Tra la discussione e il rientro in aula passarono interminabili minuti di cuore fermo. Fino a quando non si aprì la porta. I flash scattarono, battiti di mani scrosciarono, batti di cuore ripresero a pompare vita nelle vene. Era fatta.

Ora quella tesi è un libro. Non potevo esimermi dall’esaudire quel mio ulteriore desiderio di dare un contributo tutto mio, personale ad una scrittrice della quale mi sono sempre definita il suo alter ego in vita. Modestia a parte.

La mia prima esperienza universitaria ebbe fine nell’estate dell’anno più caldo. Non avrei mai pensato di proseguire. Ma la Vita non si stanca mai di giocare a scacchi con te.

[Continua…]