Il mio primo giorno di università è stato di sabato. Sì, di sabato alle 8 di mattina.
Ricordo che prendemmo il treno con il buio del primo mattino, io e le mie amiche. E ci inoltrammo poi alla ricerca dell’Aula Magna. Questa avrebbe contenuto centinaia di matricole spaesate e nervose, ammassate su sedili cigolanti di legno di una vecchia chiesa sconsacrata – con il tempo, facendo due considerazioni, ho constatato che tutte le mie sedi sarebbero state chiese sconsacrate, conventi o granai – o sedute per terra perchè l’importante era esserci.
“Se avete bisogno dei bagni, sono nell’altro edificio, in fondo, a sinistra” è stata, invece, la prima cosa che ho sentito pronunciare al microfono dalla docente di Lingua e Letteratura Inglese I. E questa prima battuta, all’epoca presa con l’ironia spavalda della gioventù, mi ha fatto capire in seguito, con più anni di esperienza sulle spalle, che quella del bagno è l’informazione forse più importante per un essere umano. Fu l’approccio quasi familiare in un ambiente troppo grande e complesso per dei ragazzi che non sapevano trovare una bacheca, figuriamoci un bagno!
Da allora, quando parlo in pubblico o devo spiegare qualcosa, parto dalle cose semplici, basilari. Quelle che non tutti si aspettano, ma che si necessitano più di altre. Poi, si va avanti. Si procede in un crescendo di complessità che è poi il vero ritratto di quello che ci si prospetta davanti: il mondo labirintico dell’università che diventa anche scuola di vita per molti. Il vero cordone ombelicale si stacca con questo passaggio.
E se ci penso oggi, seduta davanti al comodo schermo di un PC, mi sembrano molte, troppe ere fa. All’epoca, nella mia borsa infilavo quadernoni e block notes per appunti presi alla rinfusa nella confusione emotiva di capire qualsiasi cosa. Oggi, ci metterei proprio questo PC dal quale sto scrivendo ora. E se mi capita di vedere ragazzi prendere nota di preziose informazioni, non esiste quasi più la nostalgica e confortevole carta, ma freddi display di tablet o portatili.
Non disquisiamo sulla preferenza dell’uno o dell’altra, perchè andremmo fuori tema. Mi basta dire che, tra le connotazioni positive e negative dell’uno o dell’altra, era comunque indispensabile e molto più utile mettere ordine ai fogli sparsi come ai concetti non ancora ben saldati nella testa.
Insomma, il succo della questione è che l’Università, oggi, è nettamente cambiata. Così com’è giusto che sia, anche le abitudini e i modi di studio. Non voglio dire in meglio o in peggio. Anzi, sì: mi espongo con il dire che interi tomi e saggi in lingua studiati con il sangue non sono allo stesso modo equiparabili a slide schematiche che non lasciano spazio al pensiero composto, articolato, letto e appreso.
Sono quella che studiava su riassunti e sottolineature, schemi di schemi e appunti su Post-it lasciati negli angoli più impensati di casa per assimilare costantemente nomi e date, concetti e formule. Oggi non faccio lo stesso e sto continuando a studiare. Il massimo che si può fare – sempre rimanendo ben salda alla carta e agli appunti – è l’annotazione a margine su un foglio A4 stampato – volutamente – sul quale sono lasciati concetti in formato Powerpoint.
La mia prima esperienza universitaria risale alle strade di Roma. Quando il mio ordinamento era “nuovo” rispetto al precedente “vecchio”, magistrale. Oggi è vecchio anche quello, ma ancora valido. Una docente di inglese, proprio a cavallo del passaggio al nuovo – ancor più nuovo – ordinamento, quello per intendersi dei CFU del quale in pochi capiscono qualcosa ma ci si affida alla sorte, ci consigliò caldamente di non effettuare mai passaggi di ordinamento. “La vostra laurea varrà sempre qualcosa in più! E se non volete avere problemi in futuro, non equiparatela mai!“, ci disse. Ora, non per discutere sulla validità o meno, ma seguii quel consiglio e non ne sono pentita. Vivo di rendita. E mi sento di benedire quella professoressa, ovunque ella sia.
Anche il giorno in cui ci diede questo geloso consiglio era un sabato mattina. Seduti per terra per le aule troppo piene e i corsi troppo affollati. La luce fredda del neon su visi pallidi e stanchi di alzatacce per prendere il treno un po’ da ogni zona di Roma e provincia. Senza contare che noi che venivamo dalla provincia, appunto, arrivavamo sempre più puntuali rispetto a chi viveva in città.
Si studiava, si seguivano le lezioni con fedeltà coscienziosa, si riempivano le ore “di buco” con un pacchetto di crackers o andando a trascorrere il tempo nelle librerie Feltrinelli accanto alle nostre sedi. Quelle stesse che oggi sono state chiuse, le Feltrinelli e le sedi.
Se mi capita di passare davanti a quei luoghi, non credo che capiti mai di non pensare a quegli anni. Una su tutti: le corse pazze tra i semafori di Piazza dei Cinquecento a Roma, uscendo dalla sede di Piazza della Repubblica alle 17 per prendere il Pisa Centrale delle 17.05 a Roma Termini. Correre con i libri in spalla, il fiato corto e piccante in gola, stando ben attenti a non scivolare sulla melma lasciata dai piccioni che bivaccavano (come oggi del resto!) sui pini della piazza. Per correre verso i binari più lontani, spesso prendendo il treno a porte chiuse, facendo pena al controllore.
Ovviamente era il momento dello squilletto. Non c’erano WhatsApp o Messenger e i messaggi avevano un costo se non era Natale. Si avvisava a casa di stare sul treno sana e salva e che in un’ora doveva esserci qualcuno alla stazione a prendermi. Non c’erano i cellulari, però, nemmeno al mio primo anno. Quindi, si avvertiva telepaticamente a casa in base agli orari prestabiliti del “la lezione finisce alle … e il treno arriva alle …“. Un vero grattacapo era quando il treno si fermava misteriosamente nei campi in mezzo al nulla, al buio, senza ragioni apparenti e speravi che a casa non fossero troppo puntuali.
Poi, a casa ci arrivavi. Ed eri stanca. Puzzolente di treno. Ma meno di 8 ore dopo, quella routine sarebbe ricominciata.
[Continua…]