La popolarità di una persona, oggi, si misura in Mi piace e Followers. La generazione di Facebook e Instagram la vive così, spesso scadendo in una vita grigia fatta di un consenso altrui che non arriva. Erano stati creati per unire, i social media. Hanno finito per dividerci.
Hanno diviso le platee, hanno diffuso la violenza, hanno dato la parola a tutti. Veramente tutti. Quest’ultimo aspetto dovrebbe essere decisivo e decretarne l’effettivo mood positivo e sinonimo di utilità che, spesso, gli convogliamo. No, non è così se l’inciviltà si nasconde dietro uno schermo e l’opinione e la libertà di parola viene confusa con l’offesa gratuita, il vilipendio, lo sproloquio e la bestemmia.
Non sono contraria ai social network
Anzi. Nonostante quel che possa sembrare da quanto esposto finora, ritengo che essi abbiano cambiato il nostro atteggiamento verso l’informazione, verso i confini che spesso tentiamo di stringere e, invece, i social cercano di aprire e allargare.
Il problema non sono i social media, sono le persone. Non dimentichiamo che queste piattaforme, siano esse dedicate alle immagini, alla condivisione di status e di vite parallele, sono pur sempre cose e sono fatte da chi le fa. Non possiamo, infatti, scagliarci contro Facebook se nei commenti ci sono come ingredienti odio e violenza. Questi sono il frutto di menti sottosviluppate. Non possiamo nemmeno additare Instagram o, ancora, Facebook per la diffusione di immagini inutili. Spetta a chi le pubblica avere il buon gusto di discernere l’utilità dal non avere alcun significato. Sì, vale il discorso “se per me vuol dire qualcosa, la pubblico“. Ma è pur vero che come non andiamo per strada in mutande, sarebbe il caso di riconoscere che le community, seppur virtuali, sono pur sempre comunità, appunto.
No, su Facebook (sembra) tutto è lecito. I ragazzini possono offendere coetanei e professori, gli adulti possono offendere altri adulti e dire la propria opinione non richiesta. Come dicevo, il problema non sono i social, bensì le persone e il loro “parlare” pur tacendo.
Come quando arriva, un giorno un Mi piace da parte di un contatto che neppure si credeva di avere più nell’elenco delle proprie amicizie. Non so se ricordate quel capolavoro de La finestra sul cortile di Alfred Hitchcock. Bene, lui in sedia a rotelle che, con il binocolo scruta l’edificio di fronte la sua finestra per scoprire il colpevole di un ipotetico omicidio. Siamo tutti un po’ quel James Stewart che scandaglia il prossimo e la sua vita. Siamo tutti un po’ nascosti da quel mistero che è una finestra che lascia intravvedere, ma non dà la sicurezza che, dietro la tendina, ci sia realmente qualcuno. Siamo tutti un po’ quel vicino di casa che, ad un certo punto e chissà perchè, vuole farci sapere che c’è, che partecipa del nostro vissuto o che, semplicemente, ci fa capire che non gli interessa con l’indifferenza del passare oltre e scrollare – come sarebbe più indicato dire.
E allora, non è forse vero il fatto che Facebook – per nominare solo il social media per antonomasia – è un grande condominio che ci apre le finestre sul mondo ma siamo noi a decidere se lasciarle aperte o no? Siamo noi a decidere come interagire con questi condomini/utenti su questo o quel problema/argomento/situazione/avvenimento?
Il problema, dunque, non sono i social media. Ma le persone.