Alla fine ho ceduto. E anche io mi sono unita alla schiera di persone che hanno visto e fatto considerazioni su Don’t Look Up, la nuova satira di Adam McKay, ovvero l’ennesimo tentativo di aprirci gli occhi sul come siamo e come potremmo peggiorare. Questa non è (del tutto, almeno) una recensione di un film. Ma un tentativo di riflessione che dovremmo fare guardandoci ritratti in un film di due ore. Ecco perchè ho deciso di parlarne qui, sul mio sito i cui la tematica predominante è la comunicazione e il modo di gestire i nostri rapporti interpersonali dentro e fuori dal web.
In breve…
Il film è un ultimo sforzo per convincere i cittadini della Terra a fregarsene dell’imminente fine dei giorni provocata da una cometa, alias dalla crisi climatica che stia in realtà vivendo e contribuendo a peggiorare, sembra essere almeno in qualche modo consapevole di questo difetto nella natura umana. Si tratta della difficoltà di costringere i disinteressati a preoccuparsi, in questo caso appunto di una cometa gigantesca che sfreccia verso la Terra in rotta di collisione – una metafora enfatica. Un modo più immediato di mettere fine ad uno stato delle cose, visto che nella realtà sono tutti un po’ più distratti in merito al discorso sul riscaldamento globale che, in parte, è così graduale perché non è una forza di distruzione istantanea con una data di scadenza in un futuro immediato cui rischieremo di assistere.
Leonardo DiCaprio e Jennifer Lawrence interpretano gli astronomi Randall Mindy e Kate Dibiasky, sconcertati nello scoprire che nessuno è così allarmato dall'”assassino di pianeti” che hanno scoperto – non i ghignanti manichini diurni dei notiziari via cavo interpretati da Tyler Perry e Cate Blanchett, non la Casa Bianca guidata dalla presidente in stile Trump Meryl Streep e non dal popolo americano.
McKay mostra una chiara comprensione del fatto che una parte di questa apatia deriva dall’approccio secco del dottor Mindy nonostante la gravità del suo messaggio, i fatti e le figure cruciali che annoiano il capo dello staff Jonah Hill in un finto sonno. In contrasto con il balbettio di Mindy in preda al panico, McKay sfoggia gli alti decibel delle urla di Dibiasky. La sua sceneggiatura, dunque, afferma l’ovvio: ovvero che tutti siamo un po’ troppo stupidi per renderci conto dei rischi. E afferma una volta di più quanto la comunicazione efficacie sia sostanziale e che spesso porsi in una posizione di alta superiorità rischia di allontanare anzichè sottolineare un problema.
Le dita puntano in ogni direzione, nessuno escluso. I facili colpi di scena sulla cultura delle celebrità e la nostra fissazione su di essa, principalmente si palesano sotto forma di una pop star dalla testa piena di nulla di nome Riley Bina, interpretata da Ariana Grande.
I grandi e cattivi media si rivelano inutili, più interessati a salaci clickbait che a reportage onesti, sebbene la sceneggiatura si basi anche sulla macchina delle comunicazioni di massa come l’unica cosa in grado di cambiare le sorti dell’opinione pubblica. Scontato l’uso dei social dove si schierano i fatidici e onnipresenti pro e no.
Non determinanti, ma tipici di questa bieca cultura dell’apparire sono le considerazioni di “gente normale”, incarnati dai genitori di centro-destra di Dibiasky (“Siamo favorevoli ai posti di lavoro che creerà la cometa“, lasciando la propria figlia fuori casa), e di finti eroi per un giorno come il veterano sfruttato per pilotare la missione nello spazio – un uomo solo contro una cometa – ovvero un ubriacone razzista che si rivolge a “entrambi i tipi” di indiani, “quelli con gli elefanti e quelli con arco e frecce”. Stereotipi? No, basta fare un giro sui social o mettersi in fila alla posta.
E veniamo a Meryl Streep che può interpretare qualsiasi cosa ed essere fantastica. Il focus è su un presidente – stranamente donna – che però è palesamente la versione in gonnella di Trump. McKay esprime così il suo totale disprezzo verso la Trumpite di una fetta di America. L’unico gruppo simpatico al repellente atteggiamento autocelebrativo della presidente è chi si trova sul suo stesso piano ideologico, estraniando gli altri apparentemente dalla loro parte con un’aria di superiorità. La commedia sdentata ha sia il tono che la portata di un meme politico di Facebook.
Il personaggio che ne è uscito meno colpito è Yule con le fattezze di Timothée Chalamet, un giovane topo da skate che gironzola per la città natale. Un ragazzo pacato – non sembrerebbe all’inizio – e pieno di sentimento, è un ex evangelico che sta ancora cercando di capire cosa significhi per lui la fede, filosoficamente alla deriva ma abbastanza sicuro di sé da difendere se stesso. Ottiene l’unico battito emotivo di dire un’ultima preghiera prima dell’apocalisse.
Un film che lascia in qualche modo sconcertati. Da vedere non per la storia – banale di per sè – ma per guardarci per un momento allo specchio e riflettere su ciò che siamo e su quanto disinteresse alla vita ci sia.