Dal 6 gennaio, dall’assalto barbarico a Capitol Hill, una domanda ci è sempre più familiare e, al contempo, ha cominciato a risuonare negli uffici dei grandi social network: cosa fare di Donald Trump e dei suoi post provocatori? E’ giusto “tappargli la bocca” come dicono alcuni? Mentre è antidemocratico per altri? E, ancora, la risposta è stata enfatica per molti altri: bandirlo!
Per prima cosa, il presidente uscente degli Stati Uniti è stato sospeso da Twitter, poi da Facebook. Snapchat, Spotify, Twitch, Shopify e Stripe hanno tutti seguito l’esempio, mentre Reddit, TikTok, YouTube e persino Pinterest hanno annunciato nuove restrizioni.
Parler, una piattaforma di social media che si vende per mancanza di moderazione, è stata rimossa dagli app store e cancellata da Amazon.
L’azione dei vari social network ha scatenato un enorme dibattito sulla libertà di parola e in merito a se le grandi aziende tecnologiche – o, per essere più precisi, i loro amministratori delegati miliardari – siano idonee a fungere da giudice e giuria in casi di alto profilo.
I pro
Per molti, tali provvedimenti sui social media erano la cosa giusta da fare, anche se troppo tardi. Misure a lungo tardive per affrontare il continuo uso improprio delle loro piattaforme da parte non solo del presidente nel suo intento di seminare discordia e violenza, ma anche di una società sempre più arrabbiata e verbalmente violenta. Chi diffonde fake news e disinformazione ed un netto estremismo ha per anni indicato un più ampio sfruttamento basato sulla rete di queste piattaforme.
Alcuni si sono chiesti se la comoda decisione delle piattaforme di raddrizzare la spina dorsale abbia meno a che fare con la violenza del giorno e più con le manovre politiche. Ma tant’è: i giochi sono fatti.
Contro
Com’era prevedibile, l’opposizione al ban di Trump proveniva dalla sua stessa famiglia. “La libertà di parola è morta e controllata dai signori di sinistra“, ha twittato suo figlio Donald Jr.
Ma il divieto, e il precedente che potrebbe costituire, ha preoccupato alcuni analisti ed esperti dei media.
“Bandire un presidente in carica dalle piattaforme dei social media è, da qualunque parte la si guardi, un attacco alla libertà di parola”, ha scritto il Sunday Times in un editoriale. “Il fatto che il divieto sia stato chiesto, tra gli altri, da Michelle Obama, che giovedì ha detto che le piattaforme della Silicon Valley dovrebbero smetterla di abilitarlo a causa del suo ‘comportamento mostruoso’, aggiungerà al sospetto che il divieto fosse politicamente motivato“.
La cancelliera tedesca, Angela Merkel – nota per il suo poco affetto nei confronti del presidente degli Stati Uniti – ha chiarito che pensava fosse “problematico” che Trump fosse stato bloccato. Il suo portavoce, Steffen Seibert, ha definito la libertà di parola “un diritto fondamentale di importanza elementare“.
Il divieto ha preoccupato anche chi è già preoccupato per la forza della Silicon Valley. Tali preoccupazioni potrebbero essere valide, ma rischiano di enfatizzare eccessivamente la politica e le preoccupazioni degli Stati Uniti.
Per dire la mia…
Bazzicando sui social ormai da anni, spesso mi sono imbattuta in voci di disapprovazione verso queste piattaforme. Senza fare i conti con il fatto che, con il tempo, siamo stati proprio noi a fare di loro pubbliche piazze nel quale incontrarsi, parlare e sparlare, racimolare notizie.
Tutti, chi più chi meno, dall’utente iscritto per mettersi in contatto con il cugino calabrese emigrato in Argentina all’influencer da milioni di dollari in ciabatte inguardabili da altrettanti milioni di dollari non si sono risparmiati nel setacciare e affondare le mani in nuovo modo di socializzare e comunicare.
Al netto del fatto che questo ha contribuito uniformemente ad arricchirne i proprietari, non possiamo certo dire di non esserne stati complici.
Supponiamo che andiate a cena da amici. Non credo che vi sediate a tavola, mettendo i piedi sul tavolo o affrontando determinati argomenti se sapete che non sono gradevolemente accetti. Bene. Mettiamo il caso che il social network sia quella tavola sulla quale state pasteggiando e a capotavola ci sia Mark Zuckerberg che proprio non vuole che si parli della differenza tra “arancini” e “arancine”. Voi, da bravi ospiti, non vi spingerete nell’affrontare la questione. Ecco, Zuckerberg e tutti i vari CEO dei social sui quali trascorriamo le nostre giornate hanno posto delle regole che voi avete accettato al momento dell’iscrizione. Ora, sarebbe ipocrita dire che il piatto sul quale si è mangiato è sporco.
Non è antidemocratico limitare i confini della violenza. E sì, qualche provvedimento andava preso prima. E non solo con Trump. Ma con tutta la ciurmaglia di negazionisti e istigatori che si annidano dietro profili con l’immagine del cagnolino o della nonna. Finti buonisti che scaraventano odio e rancore e poi sono i più mansueti animali da cortile. I commentatori della domenica che vivono di frustrazione e trovano nei social una valvola di sfogo.
Forse a tutto questo occorreva porre un limite prima. Ma il fatto che un passo già lo si sia fatto lascia ben sperare che queste piattaforme possano effettivamente tornare ad essere quel luogo su cui informarsi e trascorrere del tempo in armonia. Una volta c’era l’edicola. Oggi, accettiamo che le cose sono cambiate e si sono evolute. Non contribuiamo ad evolverle necessariamente in peggio. La libertà di pensiero e di parola non chiamano accanto a sé l’offesa e la violenza verbale. Che, in quanto tale, violenza appunto, ha bisogno di essere punita e circoscritta. Anche se ti chiami Trump.
Photo by Charles Deluvio on Unsplash