Abusare dei social network provoca disturbi del sonno

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Andare a letto e spegnere le luci. All’improvviso, la luce del nostro smartphone lampeggia, annunciando una notifica. Cosa facciamo, allora? Un nuovo studio afferma che tutti coloro che controllano il proprio account di social networking – da Facebook a Twitter, da Instagram a  Youtube, da Snapchat a LinkedIn – molto spesso hanno più probabilità di avere disturbi del sonno rispetto a quelli che li usano con moderazione.


Per arrivare a questa conclusione, i ricercatori hanno condotto nel 2014 uno studio di 1.788 adulti di età compresa tra i 19 e i 32 anni al fine di scoprire quale associazione esista tra i disturbi del sonno e il maggiore utilizzo dei social network da parte dei giovani. In tal modo, i partecipanti hanno completato diversi questionari e gli esperti, nel frattempo, hanno progettato un sistema di misurazione per studiare le alterazioni del sonno.
I risultati dei questionari hanno rivelato che i volontari hanno utilizzati i social media una media di 61 minuti al giorno e controllando i loro account circa 30 volte a settimana. Rispetto alle ore effettive di sonno, quasi il 30% dei partecipanti ha evidenziato alti livelli di disturbi del sonno.

Nel complesso, la verifica più frequente dei loro social network durante il corso della settimana era associata ad almeno tre volte in più di probabilità di soffrire di disturbi del sonno, rispetto a quelli che ne fanno meno uso, dimostrando così che la frequenza con cui usiamo i social network può essere il miglior premonitore di questo tipo di patologia. “La forte associazione tra l’uso di smartphone e i disturbi del sonno ha importanti implicazioni cliniche per la salute e il benessere dei giovani. Un lavoro futuro dovrebbe mirare a valutare la direzionalità per comprendere meglio l’influenza di fattori contestuali associati all’uso di smartphone”, concludono gli autori.

La ricerca, condotta dalla University of Pittsburgh School of Medicine e dal National Institutes of Health (USA), è stata pubblicata sulla rivista Preventive Medicine.