Ho sempre avuto la passione per la psicologia. Tuttavia, ho preferito – per vari motivi – altri percorsi di studi. Ma l’analisi delle persone, l’osservazione, l’idea che cercano di convogliare, spesso, inconsapevolmente, incautamente mi ha sempre incuriosita.
Poi vennero i social e il lettino dello specialista divenne una bacheca. Il diario di scuola divenne una Timeline, i compagni di classe divennero “Utenti”, “Contatti” o “Followers”. Infine, gli abbracci e i baci divennero “Like” e “Condivisioni”.
Ricordo che mi iscrissi a Facebook il giorno di Santo Stefano, mentre si attendeva che il pranzo fosse pronto. Non volevo, ma si era un po’ davanti al computer e, alla fine, mi convinsero. Così iniziò il mio viaggio nei social network. Prima Facebook, poi Instagram, poi Twitter, ecc. Ricordo che, per un periodo, ogni anno, mi iscrivevo ad un nuovo social. Li spulciavo per un annetto e poi passavo ad altro, come i giochini. Poi vennero Snapchat e TikTok, ma lì mi sono astenuta. Sarà stata l’età!
E nacque Psicologia dei social Network
Con il tempo, con le considerazione che appuntavo in mente, con le centinaia di articoli che ho snocciolato con gli anni, mi sono fatta un’idea. Che poi testavo su di me. I post che riuscivano meglio e quelli che venivano ignorati, cercavo di capire cosa portasse “audience” (termine antico per definire i followers di oggi), spulciavo le notorietà dei VIP dei social, ovvero quei tipi che possono postare anche un qualcosa senza senza, ma ricevono un seguito inverosimile. Tu, che magari hai messo insieme le tue forze per un qualcosa di pregnante, rimani solo, nel deserto del tuo profilo. Questa e tante storie si sono susseguite.
Fino a quando non ho deciso di aprire questo sito che, sebbene porti il mio nome, è incentrato sul mondo social. E non solo. Da qui al libro – nel quale molti articoli qui pubblicati nel fanno parte – il passo è stato breve.
Nel saggio, pubblicato da Tagram Edizioni Scientifiche, analizzo i diversi aspetti cui siamo sottomessi – sì, sottomessi – ogni giorno. Una valanga di dati e informazioni che ci sommergono, una nuova agorà dove è impossibile nascondersi a meno che non si decida di spegnere tutto e dedicarsi ad altro.
E ci si mise anche il Covid-19
Nel pieno marasma che si stava cercando di fronteggiare insieme e ognuno per conto suo, il nuovo coronavirus ci ha imposto di ripensare la socialità. Con esso, non si è scatenata solo una pandemia, ma anche una pandemia di dati che ci ha travolti e che, tutti giorni, scandisce vittime e guariti, nuovi casi e numero di tamponi effettuati. Il tutto in pubblica piazza che, altra non può essere, se non quella del social network. In questo, Facebook la fa da padrone, poi si aggiungono gli altri. La distanza che ci divideva ci ha in realtà avvicinati grazie a queste piattaforme.
Anche l’aspetto generazionale è finito nel turbine dei social media. Laddove gli adulti erano avvezzi a questo tipo di strumenti, proprio questi hanno finito per conoscerli ed utilizzarli forse molto di più dei propri figli e nipoti. I ragazzi, infatti, essendo più abituati ad usarli da sempre, non hanno trovato grosse differenze. Si veda il caso delle video chiamate di gruppo.
E proprio queste ultime sono state essenziali per ovviare un altro grosso problema: il misunderstanding (e sì, lo devo dire con un anglicismo!). Le incomprensioni, nella comunicazione, sono molte e se ad essa viene a mancare uno sguardo o il supporto della voce, le cose si complicano. Tono di voce che non è assolutamente percepibile nei social.
Tutto questo è descritto in un libro conciso, chiaro e semplice. Spesso ironico, ma nitido e mai complesso. Spero possa essere d’aiuto a chi, in questo mare agitato di presenze, ha bisogno di una piccola barchetta per approdare in un porto sicuro.
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